Il crepuscolo dell’uomo: misero, tenero, meraviglioso.
La storia discografica di Bill Fay è tanto intrigante quanto il contenuto della sua musica. Due album nei primissimi anni Settanta – entrambi usciti per la vecchia Deram nel 1970 e ‘71 – e poi un terzo lavoro solamente nel 2012, con la Dead Oceans, che a seguire ha pubblicato anche i successivi due (l’ultimo uscito a gennaio).
Simpaticamente la buttiamo lì: Countless Branches è gia uno dei dischi dell’anno. Il tono sacrale e malinconico diviene sempre più antico e riflessivo, tanto suadente quanto cimiteriale. Il bianco e nero e la figura del vecchio Bill che suona il piano nel singolo Salt of the Earth vale già come perfetto biglietto di presentazione del tutto.
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Il tono neoclassico della canzone, unito alla voce di Fay, riscopre la grandezza e l’unicità di un cantautore che continua – fin dal ritorno con meraviglioso Life Is People – a mostrare le carte di una musica intima, senza compromessi, magica, naturale, espressiva. Fatta di fede, amore, morte, sconfitta e di tutte quelle altre cose che si raccontano davanti a un camino.
Sarebbe un errore per tutti non lasciarsi accarezzare dal bacio suggestivo di questo nuovo lavoro dell’artista britannico. Davvero capace di frantumare anche i cuori più duri e congelati. E l’inizio di una nuova decade –che sembra così futuristica solo dalle sue cifre – non è mai stato così crepuscolare, miseramente, dannatamente e teneramente umano.