Una Polaroid dai vicoli bui di Los Angeles.
Nell’ipotetica tavolozza che si usa per dipingere una canzone, la tensione è quella tonalità indefinita che fa la differenza, trasformando uno schizzo di Jacovitti in un quadro di Bosch. Non è rabbia, non è caos, non è terrore. È una nuance particolare che oscilla tra il nervoso e il paranoide e fa in modo che il brano non molli mai la presa sul collo dell’ascoltatore.
Questa morsa attanaglia la gola lungo tutti i due minuti e mezzo di Rear Window, schizzo a cavallo tra post-punk e alt-rock che rimanda a un certo modo di fare musica di una trentina di anni fa. Spigolosa e lacerante, sembra nutrirsi di tutto lo schifo dei bassifondi di Los Angeles, vomitarcelo davanti alla faccia per poi passarsi una mano sulla bocca con sguardo gelido. Né più, né meno.
Per l’urgenza ricordano a tratti i mai troppo amati Make-Up: la band suona spingendosi oltre le proprie capacità tecniche, sputando il sangue, mentre Kristine Nevrose dietro al microfono è la marcia in più che fa davvero la differenza, dove echi della Kim Gordon più sensuale strappano i nervi di una giovane Jessie Evans isterica, mentre Poly Stirene guarda compiaciuta. Top.