Quando una cover non fa rimpiangere l’originale, parte 2.
Bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare. Phil Collins è uno la cui carriera ha prodotto sì delle canzoncine idiote, ma che per la maggior parte del tempo ha regalato alla storia della musica dei classici immortali. Non solo con i Genesis (a cui, a dirla tutta, se si esclude qualche scivolone stanco a fine carriera, non si può recriminare nulla, con album che vanno dal buono allo stellare), ma anche come solista. Se è vero che le sue ballate strappamutande hanno fatto venire il diabete tanto erano zuccherose, in primis bisogna riconoscergli che non è facile scriverle: alcune sono dei piccoli gioielli, dei minicapolavori che a distanza di decenni non invecchiano mai.
Per quello è difficile farne cover all’altezza. E stavolta, come nel caso recente di Thurston Moore alle prese con i New Order, ci troviamo di fronte ad una rilettura splendida.
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Marissa Nadler e Stephen Brodsky si approcciano al brano in maniera apparentemente morbida ma egualmente decisa, spogliandolo di ogni orpello mantenendone (quando non esaltandone) il pathos originale: ritmica marziale lasciata alle chitarre, niente batteria, intrecci vocali sempre più complessi, convincenti variazioni melodiche sul tema, con un crescendo che si espande in maniera incredibile.
Se usata come ultimo bis alla fine dei concerti sarà il brano che paralizzerà il pubblico lasciandolo immobile e, forse, con un paio di lacrime che offuscheranno la vista. Eccellente.