La terza reincarnazione di solito è quella buona. Voi nel caso lucidate gli stivali da cowboy.
Anni fa feci un lunghissimo viaggio in solitaria da Houston a Los Angeles in auto, attraversando città di confine e toccando con mano il disagio che sibila profondo negli Stati Uniti meno poetici ma più autentici. Se avessi avuto un disco del genere con me probabilmente avrei capito tante sfumature nascoste della civiltà che stavo esplorando e che mi si parava davanti in tutta la sua brutale campagnolità (che non è una parola).
Non voglio dire che questo pezzo (e questo album) esca in ritardo rispetto al mio viaggio sabbatico, ma probabilmente esce in ritardo anche e soprattutto pensando al percorso personale di Billy Corgan, che oggi – proprio come Cat Stevens o Terence Trent D’Arby – s’incazza se lo chiami così, perché lui è William Patrick Corgan. E buona fortuna a spiegarlo a mezzo globo.
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Il suono di Nashville è così prepotente che se alzi troppo il volume ti crescono gli speroni sulle sneakers e ti spunta la stella da sceriffo sul petto. A parte un episodio vagamente irlandeseggiante (anche qui, un ritorno alle origini) questo disco è l’America nella sua essenza più pura, con un abuso di slide guitar che se lo sa Kid Rock lo corca di mazzate.
Non sono gli Smashing Pumpkins e non è certamente Billy Corgan, ha ragione lui. Questo è un disco di William Patrick Corgan, la terza reincarnazione e – a sto punto – speriamo anche l’ultima.
Ricchi premi e Cotillions soprattutto per le orecchie di chi, quest’uomo, non l’ha mai ascoltato in vita sua. Per tutti gli altri un grande abbraccione virtuale, restiamo uniti e ricordiamoci che ci abbiamo messo un po’ anche a capire Pisces Iscariot o Adore eppure, alla fine, li abbiamo amati fortemente entrambi.