Che li si ami o li si odi restano ciò che al momento nel rock è più vicino all’avanguardia.
Tool o non Tool?
Questo è il dilemma. Se sia più nobile nella mente soffrire colpi di fionda alla Maynard Keenan e dardi d’atroce fortuna o prender armi contro un mare d’affanni. Morire, dormire o ascoltare i Tool? Che per l’appunto, nella scena musicale, la band losangelina è assurta allo status dei monologhi dell’Amleto di Shakespeare: ermetica, ambigua, misteriosa e sempre una spanna sopra a tutti gli altri.
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Fear Inoculum è stato l’album dell’anno, che sia stato ascoltato o scartato, amato o detestato. Era comunque un lavoro sul quale pareva obbligatorio dire la propria opinione, onde non subire l’onta di non essere à la page (ergo, non capire una cippa di rock and roll).
Invincible parla per tutti: in un crescendo intricato di sovrapposizioni sonore ostiche ed enigmatiche, la sua sinfonia echeggia come un’opera classica all’alba del nuovo ventennio. Li si possono anche non comprendere, questi musicisti alieni che si muovono senza gravità nell’omologazione del mercato attuale, ma il forte sospetto è che siano di quanto più vicino all’arte ci sia oggi in circolazione. Tutto è studiato sempre nei minimi dettagli (anche la campagna marketing che è stata furbescamente ordita): ogni fiato, ogni parola, ogni respiro, ogni silenzio.
Invincibili lo sono perché mai definibili, né etichettabili. Volenti o nolenti, restano un’esperienza dove il concettuale diventa corpo e l’essere cerebrali (accusa che viene loro rivolta spesso) la conoscenza fisica e uditiva di una dimensione ulteriore.