Sganciare napalm sulle piazze hipster durante l’ora dell’ape.
La scena indie (o presunta tale) italiana è stracolma di personaggiucoli che tentano di mascherare la loro pochezza artistica modello solecuoreamore travestendola con una becera introspezione di plastica, testi puerili declamati in accenti dialettali marcati finto confidenziali e uno scimmiottamento del rock che vent’anni fa non sarebbe stato credibile nemmeno alle feste dell’oratorio. Cose che alla fine un Baglioni perlomeno era onesto.
Per fortuna ci sono delle rarissime eccezioni.
Sono passati otto anni dal debutto dei Kill Your Boyfriend, durante i quali l’ex-trio-poi-duo veneto ha fatto un sacco di strada, tra album, EP, singoli e tour in tutta Europa. Centinaia di ore passate insieme che hanno plasmato passo dopo passo un sound sempre meno derivativo e sempre più personale, dove le influenze post-punk/noise degli esordi sono sfumate a favore di un approccio ai brani scarno eppure denso. Una specie di rilettura del kraut in chiave post-moderna.
Matteo Scarpa (chitarra, voce e synth) e Antonio Angeli (batteria e programmi) con Elizabeth trascinano a forza l’ascoltatore in un labirinto claustrofobico a cui manca beffardamente l’uscita. Un pattern rigorosamente marziale accompagna una voce alienata, mentre poco alla volta fanno capolino chitarre stratificate e manipolate con chili di effetti che tentano vanamente di lacerare la coltre nera che avvolge il brano. Non propriamente un pezzo su cui battere il piedino, insomma.
Eppure il tutto risulta morbosamente attraente: c’è vita in questi 3 minuti e 33 (la metà esatta di 666 – curioso) e si sente una band che non ha smesso di mettersi in gioco pur restando fedele a se stessa, lontana da trend che probabilmente li avrebbero castrati e sotterrati in cambio di cinque minuti di gloria effimera.
Ah, il video che accompagna il brano è un piccolo capolavoro noir: guardatelo.