A volte ritornano (e sono pure in forma).
Mettiamola giù come va messa: il gruppo svedese non imbroccava un disco da un paio di ere geologiche (diciamo da dopo Clayman?), più o meno da quando hanno deciso di passare dal ruolo di padrini del death metal melodico a picciotti di un metalcore dimenticabile.
Ecco, l’abbiamo detto. D’altra parte era questa una premessa doverosa per spiegare la sorpresa mista quasi a commozione (da buon ex convinto estimatore della band di Götheborg…) per un ultimo lavoro, I, the Mask, che contro ogni previsione inverte il trend negativo; e dimostra che la forza scorre ancora potente nelle vene di Björn Gelotte e nell’ugola di Anders Fridén (peraltro gli ultimi della vecchia guardia, visto che ha dato forfait anche l’ultimo storico bassista Peter Iwers). Non diceva forse Churchill che il sucesso è la capacità di passare da un fallimento a un altro senza perdersi l’entusiasmo per strada? Ecco, un po’ di entusiasmo residuo agli In Flames dev’essere per forza rimasto.
Echi dei tempi d’oro s’intendono bene in brani come questa Call my name: tre minuti e trenta ad alta densità, tutti giocati su un azzeccato riff portante, breve assolo con chitarre doppiate (oh, nostalgia!), ritornello ultra catchy ma non banale. E un signor video, inquietante al punto giusto, cosa che non guasta.
Timorosi come scolarette che questo parziale ritorno agli antichi fasti non rappresenti il canto del cigno, fiduciosi aspettiamo il prosieguo della saga degli In Flames: ci sono ancora un po’ di brutti episodi nella discografia dei nostri da far dimenticare.