Ci sono persone che diventano qualcuno perché capaci di cose incredibili. Altre lo diventano perché quelle cose le hanno proprio inventate.
Allo stesso modo per cui gente come Dave Mustaine o Joe Satriani devono inchinarsi di fronte a Jimi Hendrix, da Dave Lombardo a Larry Mullen ci sono intere generazioni di batteristi incredibili che devono molto a Buddy Rich.
Lui è stato il primo. Quello che ha elevato lo strumento a un livello superiore: non più accompagnamento tribale ma vero e proprio solista, in grado di rubare la scena alle (eccellenti) Big Band con cui si esibiva. Il suo spaventoso senso del tempo e del ritmo, i suoi cambi di intensità e la fantasia con cui colorava con fill improbabili anche le partiture più semplici hanno influenzato, direttamente o meno, chiunque si sia seduto dietro le pelli. Questo è un dato di fatto.
Poi ci sono i colpi di fortuna, come l’avere il mitico studio di registrazione mobile dei Rolling Stones a disposizione per immortalare le due serate del 19 e del 20 novembre 1986 al Jazz Club di Ronnie Scott a Londra. Di fatto, le ultime registrazioni di sempre di Buddy Rich.
Dopo più di trent’anni, quei nastri sono stati finalmente pubblicati: ci troviamo di fronte a un musicista che nonostante i suoi 69 anni, è in un rinnovato stato di grazia, accompagnato da un ensemble incredibile che veniva guidata e aizzata a ogni colpo di tom.
Il pezzo di apertura, Wind Machine, fa già capire chi aveva quel tocco in più, settando uno standard che pochi altri sono riusciti a ripetere con eguale intensità.
Per i neofiti, un ascolto esplicativo. Magari accompagnato dalla visione di quel piccolo capolavoro che è Whiplash.