Inguaribile ottimismo è dire: non è la fine, è solo la fine della speranza.
«L’ottimismo è il profumo della vita!», diceva la buonanima Tonino Guerra al fantomatico Gianni in una pubblicità che solo i più anziani (e quindi ormai ben poco ottimisti) si ricorderanno. Non che sia necessario fargliene una colpa. Dopotutto si sa, per mestiere il poeta mente sapendo di mentire.
Altrettanto fa il cantante. Solo che lì, una volta che hai scritto un verso come «We still believe in love, so fuck you!» e te lo senti rimandare indietro da millemila persone abbracciate insieme sotto il palco, finisci per crederci sul serio.
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Ecco. Gli Elbow possono essere definiti tutto meno che emozionalmente monodimensionali, ma quando si è trattato di spingere sul pedale dell’evangelismo ottimista, hanno sempre dimostrato di avere un qualcosa in più di qualunque altro loro collega. Una specie di convinzione quasi granitica che con un po’ di impegno non dovesse per forza andare tutto in vacca, in questo mondo post-disneyano.
Poi invece è successo che sono arrivate le rughe e la Brexit, i capelli bianchi e qualche chilo di cinismo in più ad appesantire il girovita. È una storia già vista: la gente cara che inizia a creparti attorno, l’amore che passa mentre l’herpes è per sempre e una domanda insistente che ti gira in testa ogni giorno: «Who am I?».
Come diceva qualcuno «desperate times call for desperate measures», e allora White Noise White Heat si assume la responsabilità di togliere alla quasi omonima dei Velvet Underground quel poco di luce rock’n’roll e sostituirla con un basso rumoroso che vagamente richiama quello di Grounds for Divorce, però avvolto in un pallore molto più spettrale.
Certo, rimane lo stesso, fortissimo senso di empatia di sempre, ma se anche Guy Garvey e soci hanno perso quei due penny di speranza, forse è il caso che le gambe di tutti inizino a tremare davvero, con drammatica consapevolezza.