Catarsi è accettare le proprie paure. Anche a forza di schiaffi.
Chiamiamolo pure post-punk, senza troppi rimorsi. Dopotutto a sparare nel mucchio spesso ci si prende. O comunque, nella peggiore delle ipotesi, si disperdono i manifestanti rimandando la questione a data da destinarsi.
Questione che qui, nello specifico, può essere posta in certi termini: sarà mica che Dublino vuole candidarsi a nuova capitale di un certo rock in bianco e nero, giovane, acerbamente consapevole, che te le manda a dire a cavallo di ritmi dritti e poco ambigui e con quel fare un po’ sguaiato, non si sa bene se per sua stessa natura o a causa dell’urgenza del messaggio?
Sembrerebbe di sì. Perché dopo averci presentato il fenomenale debutto dei Fontaines D.C. e rilanciato la posta con l’onestissimo secondo lavoro dei Girl Band, la capitale irlandese adesso cala il tris raccogliendo in una sala prove di East Wall questi cinque scappati di casa dal resto della nazione (Cork, Meath, Galway, Donegal) e lasciandoli lì dentro ad affilarsi gli artigli, prima di liberarli al grande pubblico e vedere quanti danni possono riuscire a fare.
Il quarto singolo estratto dal recente When I Have Fears racconta la versione disagiata di The Dreamers di Bertolucci, ovvero di come – se si picchia tutti e tre in egual misura e nessuno va KO – ci si possa amare anche a cazzotti e anche se il triangolo no, non l’avevi considerato.
Perché in giorni bui come quelli odierni – in cui di solito passa alla cassa chi la spara più grossa – il minimalismo e la decrescita felice sanno più di strategia dello struzzo che di vera e propria soluzione vincente. Nel senso, il buon vecchio “less is more” ha sempre il suo fascino, se non altro a livello teorico, ma quando ti ritrovi allo specchio a far la conta dei lividi e delle labbra spaccate, un pensierino a ribaltare il concetto una volta per tutte finisce che ce lo fai.