Quattro ceffi di Milwaukee con la birra nelle vene.
Negli ultimi quindici anni c’è stato un ritorno allo spirito rock più sudicio ed essenziale. Le barbe sono fluite come neanche al tempo dei pionieri e centinaia di band hanno affogato le impossibili ambizioni da classifica nelle droghe e nei watt, autocompiacendosi come maiali nel fangoso motto: “il rock ha da puzzà!”.
Questa grande sbracata verso l’essenza del r’n’r ha prodotto, per la maggior parte, indulgenti retro-rock kids senza idee, con un’attenzione maniacale verso il sound vintage e, nell’estetica, dei videoclip falsamente sgranati in Super 8. Per fortuna ogni tanto spunta gente come i Black Belt Theatre a ricordarci che il ritorno alle basi è una buona idea, ma che per suonare l’alfabeto di Thor, occorre una predisposizione schietta e senza compromessi.
Ed ecco quindi quattro vegliardi del Wisconsin in un garage, con le loro pappagorge non celate vilmente da una barba del cucco, con le pance da andropausa, che non mollano e sparano un pezzo immediato ma puro e greve come un macigno sui denti. Talvolta Odino e i suoi amici del Walhalla si divertono ancora a nascondersi dove la pinguedine e le rughe sembrano aver vinto su tutto. E da quelle fattezze innocue partono sberle che spazzerebbero via l’intera redazione di Rolling Stone.