Meglio soli o ben accompagnati?
James Lavelle è un po’ l’Elizabeth Taylor del trip-hop: mai da solo, ma sempre felicemente un passo avanti sul partner di turno, al punto di ritrovarsi praticamente a vivere fisso sulla soglia di casa, con delle ipotetiche valige in mano, nell’attesa soltanto di gettarsi tra le braccia del successivo (chiedere al compagno di liceo Tim Goldsworthy, prima, e ai colleghi della Mo’ Wax, DJ Shadow, Richard File e Pablo Clements, poi).
I più possessivi le chiamerebbero corna; quelli comprensivi, necessità di scappare dalla routine; gli evoluzionisti, spirito di sopravvivenza. Fatto sta che ogni volta, stagione dopo stagione, la sua creatura UNKLE si è reincarnata in qualcosa di diverso, anche se mai a caso e costantemente al passo con i tempi – trasformando così un potenziale punto debole in tratto caratteristico e diventando uno degli esempi di riferimento per quelle occasioni in cui ci piace tirare in ballo il concetto di “progetto collaborativo” (o, come fa più fico dire, “collettivo musicale”).
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Concetto, questo, che ci sta come il cacio sui maccheroni quando si parla di band legate (geograficamente o musicalmente) a un certo Bristol-sound. Dalle ospitate ormai anarco-populiste e mainstream dei Massive Attack a progetti più radical chic ed elitariamente prog, come quello degli Archive; dalla semplice innocua domanda “a chi la facciamo cantare questa?” a idee di composizione a più mani e ai limiti dell’open source culturale, una chiara tendenza al collaborazionismo spinto ha da sempre caratterizzato la scena, ancor prima (e forse ancor più) dell’abuso di campionamenti dub, funk e soul d’altri tempi o di droghe leggere o pesanti che fossero.
In questo senso, la raffinatezza degli UNKLE è sempre stata proprio nel modo, nella perfezione e nella naturalezza con cui ogni pezzo risulta “vero” se associato al relativo guest, ma allo stesso tempo sempre palesemente attorcigliato attorno allo scheletro di un ben preciso e riconoscibile “UNKLE mood”. Ovvero nel lavoro di orchestrazione e rifinitura sartoriale che Lavelle stesso riesce a fare, non si sa bene in quale ordine: sceglie l’artista e gli cuce addosso il vestito oppure compone il brano e poi ne trova il perfetto interprete?
Qui la parte del figurino tocca a Tom Smith degli Editors e, visto come l’abito fatto su misura gli calza a pennello, diremmo che la risposta può passare in secondo piano.