“Metal mongolo” fa già ridere così. E, invece, è una cosa tremendamente seria.
Praticamente sconosciuti fino a nemmeno un anno fa, hanno portato a casa quasi 30 milioni di visualizzazioni in poco più di dieci mesi con due soli video, firmato un contratto discografico con l’etichetta dei Mötley Crüe, scalato le classifiche specializzate fino al primo posto e fatto pure breccia nel cuore degli editor di GQ.
Considerate che la Mongolia ha tre milioni di abitati, e traete le vostre conclusioni riguardo alle dimensioni del fenomeno.
Gli HU hanno trovato la chiave per fare piazza pulita di qualunque record di comunicazione virale, semplicemente sovrapponendo oriente e occidente come se fosse la cosa più naturale di questo mondo ormai (de)globalizzato.
Musica tradizionale mongola, suonata con strumenti tradizionali mongoli e cantata secondo i dettami della tecnica vocale tradizionale mongola (una specie di “soft growl” che si piazza esattamente in un vuoto equidistante sia da Johnny Cash, sia da Phil Anselmo), ma che sfoggia un “tiro”, delle linee melodiche e dei ritornelli già pronti e confezionati per una distesa di mani alzate dentro uno stadio americano.
Video con riprese aeree di paesaggi mozzafiato che farebbero invidia a uno spot del Touring Club e una fotografia a metà tra il La Principessa e l’Aquila e sette stagioni di Sons of Anarchy. Gilet di cammello battriano e monili di corna di argali, abbinati a felpe col cappuccio, bandana e occhiali scuri, per una Route 66(6) che asfalti la steppa dell’altopiano.
Suona grottesca, messa così. Ma la verità è che è qualcosa che non avete mai sentito. O quasi…
È rock mongolo (o metal mongolo, se preferite), a tutti gli effetti, e ha un nome ben preciso: hunnu rock.
Una roba così solida e genuina da far sospettare che non sarà una ventata passeggera, un breve vezzo esotico o la sola moda di un’estate.