Io & Marley.
Lasciamo per un attimo lo, ehm, sballo provocato dalla diatriba nostrana sull’uso di cannabis e torniamo in Giamaica, dove la parola d’onore spetta sempre e comunque alla musica.
Skip Marley è uno dei tanti nipoti del profeta Bob: ha ventidue anni, è nato a Kingston ma cresciuto a Miami e possiede una sensibilità per le tematiche sociali che non tradisce il suo DNA. Da ghetto a ghetto il passo è breve e certe politiche americane hanno creato sacche di indigenza che, una volta, si trovavano solo nelle periferie dell’impero.
Il reggae, dunque, ritorna ad essere il suono del riscatto nei luoghi dove la vita umana viene barattata con il disvalore, e dove le situazioni di povertà legittimano il crimine anche quando la coscienza grida “giustizia”.
Il “one love” un po’ naïf del nonno trasmuta in un incredulo That’s Not True (benedetto dall’eco dello zio Damian “Junior Gong”). Qui l’amore non è più una mera forza salvifica veicolata da Jah, ma una disincantata litania, tanto orecchiabile quanto ossessiva, che cerca di costruire ponti umanizzanti proprio nel luogo in cui si vogliono erigere muri.