Un video-kolossal per provocare, stupire e annunciare il ritorno sulle scene. E un ritornello che rischia di (ehm) conquistare l’Europa intera.
Dieci anni: un lasso di tempo immenso, nel music business. Ben pochi gruppi possono resistere tanto a lungo, senza pubblicare un nuovo disco (Tool esclusi, ovviamente). I Rammstein, però, sono un’istituzione: una band che si è imposta nel mondo cantando nella propria lingua – abbastanza ostica, peraltro.
I berlinesi mettono sullo stesso piano musica e immagini e i loro videoclip sono sempre dei mini-film, ormai. Per “qualcosa” che portasse il nome della loro nazione, a maggior ragione, hanno direttamente girato un kolossal, carico di suggestioni, metafore, piani temporali e – al solito – lussuria, violenza e dettagli cruenti.
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Se non è ancora ben comprensibile perché abbiano rappresentato la Germania come una donna di colore ai cui piedi tutti cadono, è comunque chiaro l’intento provocatorio e sarcastico: non c’è timore nel mostrare svastiche, roghi di libri e impiccagioni in un campo di concentramento. Assistiamo così a donne che partoriscono lupi (davanti alla Madonna?), alle crociate, ai barbari, alla colonizzazione della Luna…
La canzone non spinge particolarmente verso il filone industrial, puntando più che altro sull’enfasi e convinzione con cui «Deutschland!» viene urlato a più riprese. Provate a immaginarla cantata quest’estate da quarantamila tedeschi a un festival.
Pensate però anche al brivido che vi correrà lungo la schiena quando la sentirete da quattrocentomila tedeschi in una piazza di Berlino, seguiti da quaranta milioni di tedeschi in tutta la Germania per festeggiare il 2020. E infine da quattrocento milioni di tedeschi in tutta Europa, fra cinque anni.