Musica per organi invecchiati al caldo: disinvolta e personale, ferita e risarcita al punto giusto.
Sarà per il nome, ma Hugo Race ha sempre avuto l’aria di un personaggio in fuga. In primis da se stesso, ma non meno dai potenziali fasti di uno sfavillante inizio di carriera.
Quando si presentò in stazione lui, il convoglio dei Birthday Party era ormai era già al capolinea, ma in compenso stava passando quella coincidenza chiamata Bad Seeds: una scusa per deragliare sui binari più inquieti d’Australia per un bel po’ di anni al ritmo di un capolavoro ogni due.
Poi, il bisogno di fuggire dalla poltrona comoda di una rendita da decubito e dal rischio di invecchiare nel resort all-inclusive di una sopravvivenza artistica extra-lusso.
Necessità risolta in un brusco ritorno a delle origini da esplorare in tutte le loro sfaccettature, ma sempre in compagnia di (più o meno) improvvisate band di amici: l’elettronica con i Transfargo, la lounge dei Merola Matrix, il world-folk a marca Dirtmusic, l’intimismo minimale all’ombra dei Sepiatone – l’elenco è quasi infinito.
Ai Fatalists, tocca qui dare voce all’anfratto più “americano” della sua anima (per la terza volta dopo We Never Had Control e 24 Hours to Nowhere): una sinfonia tappezzata da un blues arido ma mai freddo, dai rimandi vagamente dub e tribali, per scacciare una volta di più il fantasma di Nick Cave e ribadire che la musica più sexy sul mercato arriva ancora dalla voce e dalle mani di un ultracinquantenne un po’ stempiato, con la faccia scavata e lo sguardo senza fondo.