Niente panico: è solo la teoria dei vasi incomunicabili.
A sentire l’ottimismo degli esperti in materia, questa era del networking globale avrebbe dovuto offrirci niente di più dell’imbarazzo della scelta riguardo agli strumenti da utilizzare per dire la nostra. Poi è andata che le cose hanno preso una piega strana e, ora, i rapporti (a)sociali si sono ridotti a condividere le idee di qualcun altro sopra bacheche virtuali che vedrà solo chi già la pensa come noi. Strano: con tutte le lauree in comunicazione che ci portiamo in tasca, finire a non essere capaci di trovare nemmeno due parole ha il gusto amaro di una dantesca legge del contrappasso.
Sarà per il fatto che del sommo poeta sono conterranei, ma gli ⁄Handlogic – giusto per complicare le cose ai tempi dell’analfabetismo funzionale – hanno deciso di costruire un linguaggio che non ha bisogno di definirsi necessariamente nuovo, quanto piuttosto frutto di un collage eclettico, opportunamente nutrito da un’ispirazione multipla che, senza rifiutare a priori nessuna influenza, ha la straordinaria capacità di risultare fluido e comprensibile, invece che una prevedibile accozzaglia di spunti presi qua e là senza un criterio ben preciso.
Cresciuti a forza di tagli di chianina vicini all’osso, panini col lampredotto e Radiohead, ricordano non poco degli Alt-J pettinati con la lacca storta di un qualche retrogusto trip-hop, un po’ jazzato. Nobodypanic è il loro album d’esordio, questo il primo singolo estratto.
Le chitarre nevrotiche del primo Jonny Greenwood incastrate in un’orchestrazione elettronica di rabbia repressa, per un soul-rock moderno che lasci un messaggio forte e chiaro: la capacità di comunicare non è più congenita, ma vale ancora la pena continuare ad allenarla con costanza e abnegazione.
Almeno per non aver rimpianti e alla fine poter dire orgogliosi: ho provato a spiegarmi così forte che mi è uscito inchiostro dal naso.