C’è libertà e gioia creativa, fuori dalle oscure luci della ribalta post-punk. Almeno finché rimangono spente.
Che cos’è il post-punk?
È quello che ci hanno insegnato – ovvero una contro-ribellione premeditata a una ribellione montata ad arte, che voleva scuoiar via la componente rock dal punk e sostituirla con le infinite possibilità di qualunque altra cosa passasse al convento? Oppure quella roba che è diventata dopo essere stata masticata e risputata dalla bocca di tutti – e cioè un sottogenere fin troppo familiare e ultra-codificato, ridotto a una combo di chitarre discordanti, linee di basso dritte allo stomaco e gente che canta una specie di parlato marziale completamente avverso a ogni forma di melodia?
Quale delle due sia la risposta all’annoso quesito, di sicuro i Drahla hanno studiato bene la lezione e la mettono in pratica in maniera impeccabile. Minimali nei suoni ma convulsi e caotici nell’effetto finale, politicamente impegnati e senza paura di affrontare temi attuali e scottanti, accolgono l’idea di post-punk nell’unico modo che può avere senso al giorno d’oggi: come linguaggio e non come attitudine.
Il ritmo prevale sui riff e un concetto rarefatto di atmosfera appanna ogni minima ipotesi di songwriting standardizzato. La poetica è astratta, sconnessa e l’approccio sa tanto di no wave. Eppure l’esecuzione rammenta da vicino i Sonic Youth dell’era MTV, quando riuscivano a giocare con il mainstream senza smettere di prendere il toro per le corna.
Il tutto condito dalla variabile impazzita di un sax alla Pop Group, che entra in scena quando e dove meno te lo aspetteresti (giusto in tempo a farti sentire in colpa per la presunzione della tua iniziale valutazione affrettata). Pensavi che fosse l’ennesima trovata bislacca di tre fighetti appena usciti dal liceo artistico e, invece, è la colonna portante di un progetto ben più ambizioso.
Quando lo realizzi sul serio è ormai troppo tardi per chiedere perdono dei propri peccati.