Sempre uguali a se stessi, mai uguali a nessuno.
Credo non sia del tutto corretto dire che i Clinic abbiano creato un loro personale microgenere.
Nel senso: perché un genere musicale possa definirsi tale, ci sarebbe bisogno almeno di qualcun altro che decida di farlo suo. Invece, a oggi, la band di Liverpool non conta tentativi di emulazione da parte dei propri colleghi, se non alla lontana. È vero anche che, quasi vent’anni di carriera e otto album partoriti con cadenza più o meno regolare stanno lì a dimostrare che – almeno a livello di pubblico – il modo di tirare a campare dentro la propria nicchia Adrian Blackburn e compagni l’hanno trovato, eccome.
D’altra parte anche l’originalità la decide il mercato e quindi, finché nessuno prova a copiarti, continuare a fare imperterriti la stessa cosa risulta a tutti gli effetti il modo più estremo per fare ogni volta qualcosa di nuovo.
E infatti i Nostri perseverano diabolicamente lungo il vecchio viottolo, piastrellato di mattonelle ben incastrate anche se un po’ consumate, sì dalle proprie stesse impronte, ma lasciate pur sempre con degli ottimi, coloratissimi calzini antiscivolo. Una sorta di neo-art-garage la cui componente “arty” prende spunto dai disegni di un bambino dell’asilo, un arsenale di strumenti raccattati al mercato delle pulci e tutta una loro estetica teatral-circense, perennemente in bilico tra l’abbigliamento di uno stimato primario in cors(i)a per il premio malasanità e un artista di strada spaesato al Ferrara Buskers Festival.
Sarebbe punk se il punk suonasse Bontempi. Sarebbe rock se il rock fosse una partecipata della Giochi Preziosi.
Sembra il contrario, ma è una roba tremendamente seria. E finché nessuno se ne accorge, va bene così.