Come farsi belli per le feste senza passare troppo tempo davanti allo specchio.
Il tema del “doppelgänger” sta sicuramente almeno sul podio di quelli che più hanno affascinato l’uomo dai tempi di Romolo e Remo all’attuale governo del cambiamento. La lista dei vari approcci alla questione, anche divisa per ambiti culturali, sarebbe infinita: le barzellette con il poliziotto buono e quello cattivo, Carl Gustav Jung e la sua psicologia analitica, tutta la letteratura costellata di Dr. Jekyll, Mr. Hyde, Dorian Grey, sosia dostoevskiani e visconti dimezzati – per non parlare del cinema (David Lynch su tutti), fino alla musica, con gli epici scazzi tra i fratelli Gallagher e il recente, doloroso split di Paola e Chiara.
L’ambivalenza del doppio, il tempo che si piega su se stesso e ogni conflitto interiore che insinua il dubbio sono appunto i temi riflessi ne Lo Specchio, il primo disco di Andrea Manenti (in arte L’Avversario, dall’omonimo romanzo di Emmanuel Carrère): uno che certo non ama le soluzioni facili e, soprattutto, non ha paura di guardarsi dentro per cercare strade poco battute da percorrere con beata (in)coscienza. Infatti, debutta con un lavoro tanto audace quando complesso: uno “studio-work” scritto, ideato e suonato interamente in sala di registrazione, secondo l’espediente compositivo del canone inverso.
Un album concettualmente palindromo, che si snoda attraverso coppie di canzoni “avversarie”, appunto, che non sono altro che l’una il “reverse” dell’altra: la prima e l’ultima, la seconda e la penultima, fino al brano centrale, oltre la cui metà tutto ciò che abbiamo ascoltato in precedenza ci viene riproposto di nuovo, ma nel senso contrario.
Le Feste – girato a Villa Toeplitz, la cosa più simmetrica che c’era nei dintorni di Varese, da Ivan Vania – è la colonna sonora perfetta per tutti coloro che hanno intenzione di passare il capodanno chiusi in casa, in un volutamente decadente e disincantato faccia a faccia con se stessi, a crogiolarsi dentro una visione puramente epicurea del mondo. Laddove, cioè, ogni moto umano risulta superfluo, finito e mortale: un esercizio di sana allegria, cervellotico e complesso, ma proprio per questo assai intrigante eppure, sorprendentemente, per niente snob e del tutto accessibile.