Il ritorno di uno dei gruppi-simbolo dello slowcore dei primi anni duemila.
L’autunno ha sempre portato la caduta di grandi foglie gialle in ampi viali alberati, l’arrivo della nebbia in pianura padana e l’inevitabile cambio del guardaroba.
Poi, certo, se eravate ventenni nei primi anni ‘00, questa stagione portava inevitabilmente con sé un sacco di tristi ballate, spesso catalogate sotto l’etichetta slowcore (o sadcore, da alcuni) – un sottogenere dell’emo-core di Sunny Day Real Estate e Mineral, tanto per intenderci. Roba da cuori infranti e per gente che, piuttosto di guardare le persone negli occhi, si fissava le punte bianche delle proprie Converse (sporcate dai resti delle foglie di cui sopra).
All’epoca dischi come Control o Winners Never Quit dei Pedro the Lion erano costanti nelle autoradio delle macchine dirette al Covo di Bologna o al defunto Rainbow di Milano. Poi, che cos’è successo? C’è stato il surriscaldamento climatico, la nebbia pian piano è scomparsa e i Pedro the Lion hanno gettato la spugna. Era il 2005.
Dopo tredici anni di incerto vagare, David Bazan, da sempre il motore della band di Seattle, ha da poco annunciato al mondo intero che il gruppo si è riunito. Prima per una stringa di date americane, poi per un nuovo album che arriverà a gennaio e si chiamerà Phoenix.
Il primo estratto è Yellow Bike, un dolente mid-tempo dove Bazan, con la sua sempre evocativa voce, ci racconta dell’importanza del regalo che ricevette nel Natale del 1981: una bicicletta. Una bici gialla che, idealmente, l’ha condotto fin qui, per ritrovarsi ancora una volta a suonare quella musica che per troppi anni c’è mancata.
(la nebbia, invece, non è tornata: meglio così, tutto sommato)