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Giardini di Mirò: Different Times
Mettetevi comodi...

Senza parole (ma anche senza immagini).

Quante volte avete detto, riferendovi a una delle nostre band a chilometro zero, “ah, se questi fossero americani (o inglesi o aggiungete una nazionalità a caso purché anglofona), sarebbero universalmente riconosciute come uno dei migliori gruppi nel loro genere”. Ecco, i Giardini di Mirò sono quella band. Anzi, qualcosa di più.

Perché la formazione reggiana è davvero universalmente riconosciuta come una delle migliori nel suo genere. Anche (e soprattutto) all’estero – nonostante provengano da Cavriago, che non si presenta propriamente come la metropoli di grande respiro internazionale che si potrebbe pensare… una volta scoperto essere l’unico posto in Italia che ospiti un busto di Lenin e la casa natale di Orietta Berti.

Dall’ultimo, ottimo Good Luck – se si esclude la sonorizzazione del film muto Rapsodia Satanica – sono passati sei anni. Lasso temporale in cui i nostri non sono stati con le mani in mano: Jukka Reverberi ha messo su e fatto crescere il progetto Spartiti insieme a Max Collini degli Offlaga Disco Pax (un album, un disco live e un EP); Corrado Nuccini ha realizzato il primo full-length dei Vessel (con l’altro GdM Emanuele Reverberi) e girato tutto lo stivale seguendo Emidio Clementi dei Massimo Volume nei suoi reading (Notturno Americano, Quattro Quartetti); gli altri sono stati sicuramente occupati in qualcosa d’importante che va sotto la voce “fatti loro”.

Tornano – tutti insieme, adesso – con Different Times: un nuovo lavoro che ha un’etichetta (42 Records), ma non ancora una data d’uscita ufficiale, e un tour che è appena partito non dal circolo ARCI di Bibbiano, ma dall’AMFEST di Barcellona (i cui organizzatori li definiscono «one of the most influent bands that has ever existed in Europe in this genre», appunto).

Il genere in questione è prevalentemente strumentale e lo chiamano post-rock: suonerebbe anche fico, come termine, se non fosse che non vuol dire niente. Perché la verità è che non si può pensare a qualcosa di più stupido che traslare una definizione cronologica in una caratterizzazione estetica.

E allora ben venga una titletrack non solo muta ma anche cieca, con il suo non-video – battezzatelo “post-video”, se vi piace di più, per rimanere in tema – che si snoda immobile in un lungo countdown del pezzo verso la sua stessa fine. Il modo migliore per prendere il tempo che un tempo scorreva senza parole, e raccontarlo oggi, nel tempo in cui l’immagine è tutto, anche senza immagini.

Giardini di Mirò 

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