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Paul McCartney: I don’t know
Durante il breve periodo come bassista dei Joy Division.

Una leggenda del rock che non fa la rockstar

In questi giorni, la parte di mondo cui la musica piace (una parte che si riduce a vista d’occhio, e non è colpa di nessuno) si sorprende in ginocchio davanti a Paul McCartney e al suo ultimo Magical Mystery Tour in compagnia di James Corden. Sono tanti gli ingredienti che hanno suscitato così tanto entusiasmo (e tanta commozione, anche in gente che è nata dopo i Beatles) ma è possibile che quello decisivo sia la assoluta semplicità quasi buddhista da lui esibita nei 20 minuti di show.

In un’epoca in cui una quantità considerevole di poverini se la tirano da genio immortale con l’approvazione di fan e critici in analogo delirio mistico, ecco uno dei veri giganti assoluti della musica popolare (uno che gioca nel campionato di Beethoven e Duke Ellington - anche e a maggior ragione per essersi impiastricciato con Obladi oblada e Yellow submarine come gli rinfacciano i puri-e-duri) che usa l’arma segreta della propria ordinarissima umanità. McCartney è diventato una leggenda del rock senza mai fare la rockstar, lasciando volentieri la parte al fratello maggiore John Lennon, che ne aveva il carisma e il tormento.

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Tuttavia, proprio tale aspetto ha nascosto molti lati crepuscolari della sua produzione artistica. Nascosti nel posto migliore: dove tutti potevano vederli. In Yesterday, in Helter skelter, nel No one was saved dell’ultima messa per Eleanor Rigby. Ma anche nella produzione solista, specialmente dopo la morte della moglie Linda Eastman. Ed è interessante che oltre a ricordare il mood intensamente malinconico di alcuni brani di questo secolo (How kind of you, Riding to Vanity Fair, Road, Scared), questo “singolo” rievochi nel testo le ansie nascoste, quel senso di smarrimento che già trapelavano ai tempi del suo esordio da solista (Maybe I’m amazed): “What am I doing wrong? I don’t know. Now what’s the matter with me? I don’t know, I don’t know”.

Questo non è il McCartney che abbiamo voluto vedere nel dopo-Beatles, quello sorridente a fianco di Michael Jackson o benedicente a cantare Hey Jude alle Olimpiadi, il “sir Paul” nostalgico di Once upon a long ago o il “Macca” apertamente delizioso di Dance tonight, quello che giocherella con il suo ruolo di mito esibendosi con gli ex Nirvana o con gli U2, o che cerca in punta di piedi un altro Lennon in Elvis Costello o in Youth o Kanye West. No, questo è un McCartney che ha “corvi alla finestra e cani alla porta”, prodotto da Greg Kurstin (che coi malinconici si trova bene, da Adele a Sia) che cerca di assecondare un brano stranamente inafferrabile - e completamente fuori posto in quest’epoca.

Questo è il McCartney che non è morto ma che da tutta una vita, da quando rimase orfano, fa i conti con certi fantasmi, forse anche il suo. E forse anche quello di un’idea di musica che non capiamo più. No one was saved.

Paul McCartney Beatles 

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