Nouvelle vague tedesca e psycho-thriller in salsa kraut.
Konstantin Gropper non ha mai amato le mezze misure, gli approcci minimalisti, i bassi profili. In altri termini, l’ormai ex-bambino prodigio tedesco è sempre stato uno che raramente avuto paura di ridurre il fin troppo abusato concetto di “less is more” a quello che – semanticamente, a tutti gli effetti – è: un controsenso.
Laureato in filosofia e figlio di un famoso insegnante di musica classica, ha iniziato nella sua cameretta. Solo che nella sua cameretta c’erano: un violoncello, un pianoforte, una tromba, tre chitarre e tutta una serie di aggeggi analogici e digitali per registrare i suoi ambiziosi cazzeggi di multistrumentista in erba in maniera egregiamente professionale.
Deve essere per questo che i Get Well Soon – la sua idea di band, ovvero sei persone che lo aiutano a suonare dal vivo le cose che lui compone in rigorosa solitudine – hanno sempre tradito, fin dai primi tempi in cui cercavano di mischiarla con un semplice indie rock, una certa magniloquenza e teatralità che, negli anni, è traboccata fuori dal vaso rivelando la sua vera essenza di musica sinfonica contemporanea finemente arrangiata in un’ottica via via sempre più cinematica e cinematografica.
Così cinematica e cinematografica che, a questo giro, per promuovere il suo nuovo disco The Horror, il nostro piccolo dandy ha deciso di produrre un vero e proprio film, diviso in quattro episodi comparsi da poco online a distanza di una settimana l’uno dall’altro.
Questo il pilot iniziale, che getta le basi della la storia allucinante e allucinata di Christine e Jean, marito e moglie in crisi occupati a tentare di esorcizzare i propri problemi e i propri incubi con una terapia di coppia che sembra piuttosto il frutto di una cena a due tra Roman Polanski e Lars Von Trier. Dopo il decimo ammazzacaffè, s’intende.
Per chi vuole sapere come va a finire, qui, qui e qui ci sono le tre parti successive. Quelli che invece non hanno tempo da perdere e sono interessati solo alle canzoni, saltino pure direttamente al minuto 5:35, dove inizia sul serio Martyrs, il primo singolo tratto dall’album – o almeno ciò che ne rimane dopo che è stato opportunamente decostruito e riadattato agli scopi del lungometraggio (i puristi troveranno comunque qua la versione originale).
Piaccia o non piaccia, rimane un fatto innegabile: in un’epoca in cui l’unico obiettivo di chi ha le mani in pasta nel music business pare essere diventato quello di sfornare tutorial su come strutturare la canzoncina perfetta che in meno di tre minuti scali le classifiche di Spotify, un progetto del genere si pone come un’inversione a “U” contromano, un atto di resistenza bellissimo e commovente che, cosparso di una perfetta inutilità quasi a rasentare il suicidio commerciale, diventa una cosa – a modo suo – estremamente romantica.
Romantica nel senso di Goethe.