Quello che facciamo finta di essere e tutta l’attenzione che richiede.
Nella vita tutti indossiamo una maschera. Ogni giorno: non solo quando andiamo a un concerto dei Tre Allegri Ragazzi Morti. Anzi, spesso non possiamo fare a meno di prenderne in prestito più di una: la cambiamo a seconda delle situazioni e scegliamo quella giusta in base a chi abbiamo davanti.
Nella vita tutti indossiamo una maschera. E raramente finisce bene: quasi mai ci fermiamo un attimo a chiederci quale di queste maschere ci rappresenti davvero. Ci aveva già avvertito Ingmar Bergman nel 1966 con Persona e oggi Ryan Lee West (produttore londinese, in arte Rival Consoles) torna sulla scena del delitto con un disco omonimo, appena uscito, e un singolo che già dal titolo mette in tavola le sue intenzioni: sbirciare tra le nostre rughe di cartapesta e provare a far luce nelle zone d’ombra che ognuna delle figure che impersoniamo proietta sulle altre.
Una moltitudine di layer impilati come piatti ancora da lavare: spezzoni di performance live, vecchi filmati della BBC, proiezioni visual astratte e una continua altalena tra flussi analogici e digitali che indubbiamente rende bene l’idea di quanto sia difficile isolare il proprio “true self”, in mezzo a tutto il rumore che creiamo attorno.
Nella vita tutti indossiamo una maschera. Anche Kurt Vonnegut aveva provato a farci notare quanto la questione non fosse da sottovalutare, mettendo in fila parole semplici con quel suo tono tipico che fa sembrare ogni cosa come la meno complicata di questo mondo. Cito a memoria: «Noi siamo quello che facciamo finta di essere, quindi dovremmo stare molto attenti a quello che facciamo finta di essere».
Rival Consoles fa finta di essere Jon Hopkins con il sorriso furbo di Apparat e gli occhi tristi dei Boards of Canada. Lo fa con molta attenzione, quanto basta di sfacciataggine e la necessaria quota di delicatezza.
Gli viene benissimo.