Alla fine, bastava solo aver un pizzico di fiducia e una buona dose di pazienza.
Strana storia, quella di Timothy Prudhomme e compagni di merende: buona per Chi l’Ha Visto? o un programma a caso di Carlo Lucarelli.
Tra metà degli anni ‘90 e gli albori del nuovo millennio, hanno pubblicato otto dischi, calcato più di quattrocento palchi e cambiato etichetta con una frequenza maggiore di quella con cui Liz Taylor ha cambiato marito (nove in totale, tra cui la Matador e la nostrana Homesleep). Nel 2008 hanno raggiunto l’apice della “fuckness” con un epico concerto durante il Festival of the Fuck Bands, organizzato in compagnia di altri gruppi dai nomi altrettanto evocativi come Holy Fuck, Fucked Up e Fuck Buttons e tenutosi – e dove altrimenti? – nella ridente cittadina austriaca di Fucking. Da lì in avanti, più nulla: non un annuncio, non una nota stampa, non un saluto. Semplicemente scomparsi dai radar, senza nemmeno un abusatissimo “Houstun, we have a (fucking) problem”.
Poi è andata che il loro vecchio amico (nonché batterista dei Sonic Youth) Steve Shelley, una volta fondata la sua label Vampire Blues, abbia deciso di ripubblicare i loro primi lavori e scoperto che i Fuck – nel frattempo, in tutta calma, di nascosto – si erano presi il lusso di scrivere una quindicina di quelli che probabilmente si candidavano al premio di pezzi migliori della loro carriera. E, in pratica, avevano pronto un album nuovo di zecca.
L’hanno chiamato The Band, registrato a spizzichi e bocconi secondo le loro vecchie usanze DIY (le basi a San Francisco, gli overdub in Italia, il mixaggio finale a Memphis) e deciso di farlo uscire a Giugno. Leave my Body è il primo e unico singolo e – contro ogni idea di stretegia promozionale online – se ne sta ben rintanato (ancora “unlisted”, ovvero introvabile tramite il motore di ricerca della piattaforma) su YouTube, insieme al suo video che suona come un didascalico inno alla banalità di tutti i giorni, a metà tra una storiella di Raymond Carver e un vecchio film in bianco e nero.
Qual era quella frase fatta che si usa in questi casi? “Rock’n’roll will never die”, giusto? Ecco, questa piccola parabola ci suggerisce che forse è vero anche per l’indie, quello originale e più genuino: difficilmente muore, al massimo sta in coma una decina di anni, ma poi si sveglia all’improvviso. Quando meno te lo aspetti. Quando avevi perso la pazienza. Quando avevi perso la speranza.