“No chitarre” equivale a “No Arctic Monkeys”? Naaaa.
“Oddio, ma gli Arctic Monkeys sono senza chitarre! Peggio: sono senza canzoni!”: questo è il ritornello che gira in rete a proposito del nuovo disco del quartetto di Sheffield. Sono critiche sensate? La prima, forse (anche se le chitarre ci sono; meno, ma ci sono); la seconda, proviamo a valutarla con questo singolo.
Una cosa da dire subito: gli Arctic Monkeys sono un gruppo sopravvalutato. Attenzione: non parliamo di qualità della musica, ma di status. Gli affezionati del rock, visto il sorpasso nell’immaginario giovanile da parte di hip hop e R’n’B, contavano su di loro per far vedere quanto “la musica con chitarre fosse meglio”. Ma a chi scrive pare che a questi musicisti non interessi affatto diventare simboli di una guerra tra nicchie: lo status è una cosa, ma loro puntano semplicemente a suonare, comporre, andare avanti senza il chiacchiericcio esterno.
E questo li rende non solo musicisti davvero indipendenti, ma artisti di una certa caratura. La gente voleva più chitarre, loro hanno fatto quel che volevano. Che piaccia o meno, scelta rispettabile: stimoli nuovi per non morire nella stagnazione.
Nella lotta per far tornare il rock alla sua origine (il corpo, il sesso), le Scimmie recuperano uno stile in cui mischiano glam e crooning: vintage in tutto e per tutto, ma profondamente personale e votato al sensuale. In Four out of Five la batteria mixata così “avanti” e accompagnata dall’organo crea un incontro tra lo spaziale del testo e il corporeo del canto di Turner e del coro. L’immaginario di un hotel lunare in cui rilassarsi è il futuro/quasi presente che, chi lo sa, dovremmo magari vivere come nel verso «Take it easy for a little while».
Quel ritornello perfetto che è Bowie qui ed ora, ma più postmoderno ancora. E Alex Turner pare il cantante più verboso del pop: come se volesse riempire di dettagli ogni anfratto del brano. Come se avesse paura di annoiare – ma noi non ci annoiamo affatto.