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Underoath: It Has To Start Somewhere
Con quei baffetti da sparviero...

Underoath
It Has To Start Somewhere

Il biondo Don Henley del metalcore americano dice che da qualche parte occorre pur partire.

Sono tornati gli Underoath: uno dei nomi storici più in vista e, diciamolo, migliori della scena metalcore americana “moderna”, quella degli anni duemila. Sarà forse per via di quella cosa per cui non è la specie più forte a sopravvivere, ma quella che meglio si adatta al cambiamento?

Perché è un fatto che, di cambiamenti, gli Underoath ne abbiano saputi gestire un po’ negli oltre vent’anni da che sono in giro. Il turnover dei membri, innanzitutto: dal 1997 ad oggi, diciassette musicisti diversi si sono avvicendati nel gruppo. Un porto di mare. Hanno saputo elaborare il “lutto” di un addio alle scene di un paio d’anni, ora rientrato assieme allo storico batterista e cantante Aaron Gillespie, biondo Don Henley della scena metalcore cristiana. Che poi, ecco: parliamone, del metalcore cristiano, fenomeno squisitamente americano.

I Nostri, infatti, sono passati dal “Siamo una band cristiana! Dio è grande!” al “Siamo una band cristiana, ma scriviamo un po’ di quel cazzo che ci pare” e, infine, al “Sapete che c’è? L’unico cristiano rimasto è il tastierista”. E il tastierista, in un gruppo come questo, conta quello che conta.

Così, di mutazione in mutazione, gli Underoath arrivano ora all’ottavo disco (Erase Me), efficacemente aperto dalla qui presente It Has To Start Somewhere. Ormai il (sotto)genere ha dato e detto tutto ed è più inflazionato del bolivar venezuelano. Ma l’originalità è sopravvalutata (“I grandi artisti copiano, i geni rubano”, diceva Steve Jobs, citando Picasso), e una bella canzone rimane una bella canzone.

Underoath 

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