Il metal vagamente trendy, suo malgrado.
I Pallbearer sono originari di Little Rock, Arkansas: la stessa città degli Evanescence, lo stesso stato di Bill Clinton. Accostamenti mortificanti per il gruppo, data la poco edificante statura artistica o morale di tali personaggi, ma tant’è (se proprio volessimo essere un po’ più seri, negli anni ’90 l’Arkansas fu teatro di uno dei più aberranti casi di violenza sui minori e giustizialismo fanatico, infondatamente ma strettamente collegato alla musica metal: i cosiddetti Tre di West Memphis).
Attivo dal 2008, negli ultimi anni il quartetto americano si è conquistato un posticino al sole, pur suonando una specie di doom metal progressivo – “hard rock”, semplificando al massimo – che non è proprio sinonimo di fruibilità popolare.
Che cosa è successo, insomma, per far sì che i Pallbearer siano diventati così cari ai critici di Rolling Stone (quello originale, quello vero), Pitchfork e Spin, cioè testate che, in genere, trattano il metal e dintorni con sufficienza mista a disprezzo malcelato? Beh: sono bravi, certo. Ma non bravissimi – e in qualche misura lo dimostra anche questo pezzo nuovo, peraltro piuttosto “breve” per i loro standard.
In realtà non abbiamo una risposta definitiva (forse è per questo motivo che non scriveremo mai per Rolling Stone, Pitchfork e Spin, a prescindere dal fatto che ormai pure loro paghino in strette di mano, team building e visibilità, forse). Può semplicemente darsi che, ogni tanto, la ruota della fortuna mediatica mainstream premi una metal band che si è sforzata di NON mettere caproni satanici e donne sgozzate sulle copertine dei propri album.
Buon per i Pallbearer che, ripetiamo a scanso di equivoci, sono davvero in gamba. Adesso, però, aspettiamo da loro le canzoni e i dischi che giustifichino davvero l’hype (come si dice in centro a Milano).