Una tribù che balla sul nostro domani odierno.
Lo sappiamo: siamo piccoli frammenti di un mondo che ama andare ai concerti per farsi le instagram story; un mondo in cui, apparentemente, non ci sarebbe spazio per i Goat, forse la più bizzarra, anacronistica, primordiale rock band degli anni ‘10. Detto questo, l’impianto promozionale che li accompagna, comprese le note biografiche, aderiscono perfettamente all’odierna, esasperante domanda di marketing narrativo.
Andiamo per gradi. I Goat sono un collettivo di musicisti svedesi: questo è l’unico dato certo. Leggenda narra che suonino insieme da quando erano bambini, cresciuti nella (reale o presunta) comunità svedese di Korpilombolon: un villaggio di circa cinquecentotrenta persone, composto per la maggior parte, a quanto pare, da membri del gruppo (se è vero che la formazione attuale sia frutto di una serie di avvicendamenti avvenuti negli ultimi trenta/quarant’anni).
Il villaggio è avvolto da una sorta di maledizione e i suoi abitanti sono devoti ai riti vodoo. Da qui, evidentemente, l’approccio scenico tribalista della band.
Dal vivo, i Goat producono un set psichedelico e multicolore, fatto per appagare orecchie buone, soddisfare occhi di visionari e far risalire gli acidi ai figli di Jimi Hendrix, Velvet Underground e Paul Simon. È un afrobeat con tante chitarre e con due voci femminili a far da raccordo; due capo-tribù, più che “lead singer”, che ballano incessantemente e cantano scoordinatamente, come trasportate da una crescente connessione con l’universo.
Tutti i membri indossano maschere e costumi; la “policy” che regola il loro anonimato è strettissima: niente promozione, pochissime immagini. Uno solo di loro, di tanto in tanto, si presta a interviste, e il quoziente di assurdità ricorda un po’ Rudi Van Der Saniel della serie televisiva inglese The Mighty Boosh.
Questa è un’entità che appartiene a un ipotetico Ordine dei Monaci Psichedelici; è la musica vista come processo creativo all’interno di una comunità, figlia di un’utopia dei tardi anni ‘60 che, però, trova il suo posto perfetto sul palco dei festival di oggi (il set di Glastonbury 2015 li fa emergere in tutta la loro potenza).
La Rocket Recordings li ha messi sotto contratto dopo aver intercettato un paio di loro pezzi online; nel 2012, ha pubblicato il loro album d’esordio World Music, distribuito da Sub Pop. A oggi, di album ne han fatti quattro. Let It Burn è un singolo nuovo di zecca. Precede un nuovo disco? Non si sa.
Non chiedete ai Goat di togliere la maschera: il giorno in cui lo faranno, sarà un grande giorno, ma sarà anche la loro fine.