Respiro, trance, meditazione e altri ingredienti per un perfetto rave bio.
Fino ad oggi il genio di Jon Hopkins si era nutrito di cose relativamente concrete: campionamenti dei fuochi di artificio presi in prestito della cerimonia di apertura delle Olimpiadi; lifting brutali sulle forme d’onda di sciacquoni dei cessi di un ben noto hotel di New York, registrati con l’iPhone e ripassati poi nella padella di qualche sequencer digitale; l’allarme di casa mandato al contrario, ma solo dopo averlo privato di qualche bit scelto con cura.
Insomma: il classico tipo che, durante le feste private, alle quattro di mattina – quel momento sacro quando sono ormai tutti se ne sono andati o stanno stesi ubriachi sul tappeto in salotto – ti ritrovavi in cucina sommerso dalla marea di toast che aveva abbrustolito, solo per il gusto di sentire ancora una volta il suono meraviglioso del tuo tostapane. Lo stesso oggetto che, fino ad allora, tu avevi usato tutti i santi giorni a colazione, senza renderti conto che andava a eccitare una frequenza ancora inesplorata dello spettro udibile.
Anche durante i suoi concerti, armato dell’intero catalogo di Kaoss Pad della Korg fantasiosamente collegati gli uni con gli altri in un’installazione tutt’altro che wireless, sembrava uno stenografo iperattivo, capace di generare con le dita suoni sintetici incredibilmente profondi ed emozionanti, che avevi l’impressione di poter quasi toccare con mano.
Poi si sa: tutti, a un certo punto della nostra esistenza, finiamo per attraversare uno “stadio mistico”. Sperimentare tecniche di meditazione, stati di trance indotta, fare un viaggio in India e magari provare anche se ci riesce di campare con una dieta rigorosamente vegana. Qualcuno ne fa da lì in poi uno stile di vita, qualcun’altro nel giro di un mese torna ad attentare al buco dell’ozono sgasando con il SUV in fila al semaforo.
A sentir lui, Jon Hopkins in quel periodo di trascendenza c’è entrato ora, con il suo quinto, atteso album. Singularity esce a inizio Maggio e – stando al foglietto illustrativo che il produttore inglese ci ha fornito a corredo di questo primo singolo – «is a blend of sounds, the attempt to find a space where dancing and meditation can coexist».
In pratica la versione su disco di quella che, durante le serate di musica elettronica nei locali più attrezzati, chiamano “chill-out zone”. Cioè un posto dell’anima pieno di divanetti di dubbio gusto in cui di solito finisci a collassare, nel tentativo di sopravvivere alla fase down dell’MDMA, ma che nessuno vieta di utilizzare per stare al passo con i tempi e seguire un potenziale nuovo trend della rave culture: quella sana mezz’oretta di yoga, buona per rigenerare lo spirito prima di tornare in pista per l’afterhour.