Tre minuti di buoni motivi per cui è meglio avere un gatto che un fidanzato.
Courtney Barnett è la Courtney che tutti avremmo voluto, tempo fa a Seattle, al posto di quell’altra zoccola.
Non che ci avrebbe salvato, ma quantomeno saremmo andati a fondo beati delle nostre insicurezze con più cognizione di causa. Insicurezze che poi erano le sue: più scazzata che sexy (il termine fico per dirlo credo sia slacker), in un continuo oscillare tra l’ironia degli inevitabili pericoli di un ipotetico 21st-century living e il rassicurante terrore di qualunque interazione sociale.
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Insomma, Barnett era l’amica un po’ depressa, che però ti faceva morire dal ridere per come ti raccontava le cose, quella con saresti voluto andare a bere una birra tutte le sere per sentirti dire che il mondo fa schifo ma quelli che dicono che il mondo fa schifo fan schifo di più.
O almeno, io una birra con Courtney – all’epoca del suo debutto – ce la sarei andata a bere volentieri, lo confesso. Sarà che ormai le avevo provate tutte senza particolare successo, ma ero disposto senza nessun imbarazzo di sorta anche a questo tentativo da ultima spiaggia: farmi spiegare da una nata nell’87 come uscire vivi dagli anni ’90, passando senza troppi traumi dal buon vecchio «I hate myself and I want to die» al suo disarmante «I used to hate myself but now I think I’m all right».
Ora la ragazzina è cresciuta, ha letto (forse un po’ troppo) Margaret Atwood, cita nei video i pop-art collage di Richard Hamilton e si fa fare i cori dall’ex Pixies Kim Deal. Così, ci fossimo oggi, seduti al bancone di quell’ipotetico pub, immagino dovrei sorbirmi un sarcastico – ma pur sempre delizioso – pippone sugli sbilanciamenti del rapporto uomo/donna a base di “ma chi vi credete di essere? pensate che il mondo giri solo attorno a voi?” e un sacco di altre frecciatine brillanti quanto dolorosamente attuali.
Poco male. Sarà che ho un debole per Courtney Barnett, ma io sono disposto ancora a correre il rischio.
Sai mai che imparo comunque qualcosa.