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A Place To Bury Strangers: Never Coming Back
Il concetto di "riporto" trascinato alle sue estreme conseguenze

A Place To Bury Strangers
Never Coming Back

Caso di studio: quando l’unico modo per apprezzare al meglio una band è tapparti le orecchie.

La storia di Oliver Ackermann ha i contorni distorti del sogno malato di un “guitar nerd”: uno smanettone dei circuiti a corrente alternata che, invece di unirsi agli anarchici antagonisti e sabotare centrali elettriche, ha deciso di (h)ackerare – nomen omen – pedali e filtri di pre-amplificazione per sentire l’effetto che fa.

Così facendo ha equamente diviso il suo pubblico tra chi sostiene che ha fondato una band al solo scopo di testare sul campo le sue creazioni e chi, al contrario, rimane estasiato di fronte a cotanto ingegno, dichiarando senza mezzi termini che nel campo del post-punk (o comunque vogliate chiamarlo) suoni del genere non si sono mai sentiti – il che è sicuramente vero, se non altro per i volumi da estremista della percezione uditiva verso cui li spinge lui.

La realtà dei fatti sta, come spesso succede, nel mezzo. Da un lato è sì inconfutabile che la dimensione (soprattutto quella live) degli A Place To Bury Strangers – tra chitarre spaccate per terra, collisioni di strumenti in volo e dissezioni di sei corde senza anestesia – sfiori i confini della pagliacciata noise. Dall’altro c’è il forte sospetto secondo cui, alla base di quella che è stata semplicisticamente etichettata come “the loudest band in New York”, ci sia una sorta di estetica sonora, una specie di rigoroso metodo nella pazzia: rumore, rock e paranoia, agli ordini di un’armata brancaleone di diodi, condensatori e potenziometri saldati insieme senza via di scampo e sparati oltre i limiti di qualunque legge sul disturbo alla quiete pubblica e privata.

Manco a dirlo, rumore e paranoia la fanno da padroni anche nel video di Never Coming Back – primo singolo tratto dal nuovo album Pinned, in uscita ad aprile – non a caso diretto dallo stesso Ackermann in compagnia di Ebru Yildiz: a metà tra un Suspiria dei giorni nostri e la versione metropolitana di The Blair Witch Project, si regge quasi esclusivamente su un giro di basso apparentemente innocuo (al punto da sembrare rubato a un pezzo dei Cure), ma in realtà ossessivo e ineluttabile come la morte, prima di esplodere nel solito, adorabilmente disturbante muro di suono che finisce per essere lo sbarramento invalicabile alla fine di un “cul de sac” annunciato.

L’ennesimo luogo di non ritorno, appunto.

Per i tuoi timpani, almeno.

A Place To Bury Strangers 

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