La malinconia che non ha bisogno di canzonette.
Ho avuto un poster delle Marine Girls, la primissima band di Tracey Thorn, affisso sul muro del bagno di casa per quattordici anni; questo mi autorizza a metter becco su qualunque cosa Tracey faccia. Badate: il fatto che il poster si trovasse in bagno, e non altrove, non inficiava il loro valore. Anzi, il bagno era il luogo in cui potevo osservarle meglio e più a lungo.
Soprassiedo su quanto io abbia adorato gli Everything But The Girl; è una di quelle band che non si è mai sciolta veramente, perché Tracey e Ben (Watt) hanno lavorato quasi sempre insieme, anche dopo.
Tracey, da solista, ha perseguito la strada dell’elettronica, evolvendo in una – come lei stessa si definisce – “bedsite disco queen”. Negli ultimi anni di dischi non ne ha fatti molti, dunque mi sono divertita a seguirla in veste di acuta e ironica osservatrice della contemporaneità (suo profilo twitter) e dispensatrice di consigli letterari [sua rubrica sul New Statesman]. Recentemente, ha speso parole di elogio per l’autobiografia di Robbie Williams: e io l’ho comprata. Lei dice, io faccio.
Queen anticipa il primo, “vero” album dopo sette anni; lavoro che porta un titolo mirabile e sintetico: Record. Bello che lei ritorni; ma il pezzo è brutto.
Parte insipido, e arriva noioso. E quando entra la sua voce, a dire il vero un po’ stanca e fuori posto, mi prende la tristezza. La sua ugola è troppo preziosa per accompagnarsi a trame di elettronica facile e stucchevole. Nei lavori precedenti l’alchimia funzionava meglio: c’erano basi più minimali ed elaborate a sostenere quel timbro spesso. Qui ci sono tastiere che san di stantio e la sua voce ne patisce. Se Tracey avesse voluto cantare con i Go West, l’avrebbe fatto nel 1985, non è vero?
Ma, insomma, a marzo uscirà il disco, e Tracey è contenta così. E allora lo sono anche io.
Basta che Lei e Ben stiano assieme per sempre.