Potrebbe essere uno schifo ma non importa. E non lo è.
Jason Becker scese dal trottolone del rock’n’roll nel 1991, subito dopo aver registrato A Little Ain’t Enough di David Lee Roth, terzo disco solista dell’allora ex Van Halen. Poi si mise a letto e attese la fine perché gli era stata diagnosticata la SLA e non è che ci fosse altro da fare. Perse l’uso del suo intero corpo e della voce. Addio chitarra, addio vita.
Anzi, no.
Con la testa Jason ci stava ancora, alla grande. E questo era il dramma all’interno del dramma, forse. Più in là Gary Becker – il padre, eroe assoluto di questa storia, come ogni bravo papà dovrebbe sempre tentare di essere – codificò un sistema di comunicazione, partendo dal movimento degli occhi del figlio. E un amico produttore, altro eroe, Mike Bemesderfer, ideò un programma informatico che, nel tempo, ha permesso a Jason di comporre ancora la sua musica.
Arriviamo a oggi. Non è questo, intitolato giustamente Triumphant Hearts, il primo album che Jason ha inciso nelle condizioni di cui sopra. Ma è il primo che arriva dopo una pausa di dieci anni. C’è una sfilza di ospiti – Steve Vai, Jeff Loomis e un pullman pieno così di altri chitarristi più o meno virtuosi – ed è stato realizzato con l’aiuto del produttore Dan Alvarez e del cantante Codany Holiday.
Il primo “singolo”, Hold on to My Heart, si basa su un dialogo possibile tra Jason e se stesso e tra Jason e i suoi amici. Le domande sono quelle che ci rivolgiamo anche noi, che non abbiamo una perenne condizione di impotenza generalizzata. Becker accompagna il brano con questa dichiarazione magnanima: «È la mia storia e, in un certo senso, quella di tutti».
Un par de ciufoli, Jas: la tua storia non è come la nostra. E ti siamo molto grati per avere tuttora il desiderio e la forza di raccontarcela.