Una casa accogliente, anche per i fantasmi delle teste che parlano.
La casa di David Byrne si è mossa (Houses In Motion), è bruciata (Burning Down The House) e forse (… e su questo annuirebbero vigorosamente i suoi antichi coinquilini, buggerati in ogni modo possibile), my God!: forse non era neanche la sua bella casa (Once In A Lifetime).
Ma la casa di David sono sempre stati i Talking Heads, e malgrado uno status di genio sapientemente coltivato in tre decenni, la verità è che dal brusco e acrimonioso scioglimento quasi pinkfloydiano della band, trent’anni di Byrne solista ci hanno consegnato alcuni dischi graziosi e alcuni dischi ambiziosi, ma mai dischi realmente degni del suddetto status.
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Così, può darsi che a parlare sia un’afflitta devozione, ma è bello credere che questo singolo riveli il suo desiderio di tornare a casa – non tanto con gli esasperati ex componenti del gruppo, quanto a quel modo di pensare la musica. Ritmo, idee, vocalità nervosa, arrangiamenti sghembi (obliqui, tanto per dirla con il suo mentore Brian Eno, imbarcato di nuovo come ai tempi belli), consapevolezza di ciò che oggi è avant-garde (una certa aria di LCD Soundsystem, che poi è semplicemente reclamare indietro il prestito), progressioni melodiche inaspettate (dai Depeche Mode al Badalamenti di Twin Peaks).
C’è un’aria familiare anche nel testo (una frase come «We’re only tourists in this life – only tourists but the view is nice» è degna di True Stories) e nel titolo dell’album in arrivo a marzo: non è Miss America, non è America Is Waiting e non è American Troglodyte, ma è American Utopia, scelta che i suoi estimatori riconosceranno come un ulteriore segnale in codice di possibile riapertura, per quanto unilaterale, di quella casa che forse non avrebbe dovuto chiudere.
Del resto, in questi anni un po’ troppo compiaciuti, lui è mancato a noi, ma anche noi siamo mancati a lui: «Now everybody’s coming to my house, and I’m never gonna be alone».