La voce del duo The Knife è tornata, ma non è come ve l’aspettate
Karin Dreijer Andersson, la metà femminile e voce dei disciolti The Knife, è tornata. È tornata prendendosela piuttosto comoda, essendo ormai passati otto anni dal suo incredibilmente bello – e intrigante, e oscuro, e stregonesco – debutto solista intitolato proprio Fever Ray, nato durante e dopo la sua gravidanza. In mezzo, nel 2013, c’è stato un nuovo disco targato The Knife, quel Shaking The Abitual con cui il duo svedese si lasciava alle spalle la componente più melodica del proprio suono, mettendo invece sul piatto tutto il proprio carico ideologico di ispirazione anarcoide e femminista.
Ecco: in qualche modo Plunge, il secondo disco di Fever Ray, riparte da lì. Ancora una volta Andersson “scuote le abitudini” e anziché muoversi nei binari confortevoli del suo notevole debutto decide di deviare, e tingere a colori fluo immagini e atmosfere precedentemente in bianco e nero. Si accentuano i ritmi tribali, i suoni ruvidi e dissonanti; non si parla più di solitudine e di depressione post-partum e da privazione del sonno, ma di diritti e libertà sessuale, ispirandosi, come già in passato, al cosiddetto movimento queer.
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A dialogare con quella che è stata la primigenia incarnazione di Fever Ray c’è rimasto (quasi) solo un brano. Si chiama Mustn’t Hurry e non è, anche se sembrerebbe, un outtake del 2009. Ma le atmosfere sono quelle, i suoni pressapoco gli stessi; l’incedere è lento, marziale, e Karin torna indietro nel tempo quando canta «Got my babies / My own family / Something to stick in». Come a dire: sì, va bene il sesso e il rifiuto della dimensione patriarcale e il fatto che ogni volta che scopiamo è una vittoria (cfr. This Country) e, oh come vorrei esplorare con le mie dita la tua pussy (cfr. To The Moon And Back)… ma c’è vita, e senso, anche nella famiglia.
E anche questo è un messaggio rivoluzionario mica da poco.