Milano indie: roba rapida e collosa.
Immaginate di camminare per una delle vie più fighe di Milano ed essere colti da una sorta di raptus indie rock (se mai possa esistere, un raptus indie rock).
Immaginate di ritrovarvi con la voglia di prendere un sasso e scagliarlo contro una delle vetrine che urlano “non puoi comprarci!”.
Immaginate, infine, di essere negli anni ‘80, quando l’indie di cui sopra non era ancora stato inglobato dal sistema, dal capitalismo, dalla pubblicità, da quelle robe lì.
Ovviamente, occorrono chitarre e coretti nel classico stile Parquet Courts che, assieme a Daniele Luppi (uno che si circonda sempre di fior di collaboratori, come nell’ultimo Milano dove troviamo anche Karen O degli Yeah Yeah Yeahs), danno vita a una canzone pop mezza infoiata e mezza rilassata.
Nel ritornello si rivede tutto lo stile della band di New York, quella sorta di assalto gentile all’unisono interrotto improvvisamente.
Tutt’attorno, Luppi costruisce un’esile cattedrale noir che ci ricorda come questa musica sia poi stata inglobata, negli anni a venire: prima era alternativa, poi ha cominciato a esser scelta da direttori creativi per spot, divenendo organica al sistema (quel che scrivo vi pare abbastanza marxista?). Infatti, la scelta di scagliarsi contro un marchio come Cartier è già di per sé significativo: quanti altri gruppi lo farebbero, oggi?
Ma questo non è un problema vostro: voi dovete ancora trovare un sasso.