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Enslaved: What Else Is There
Dicono che la seduzione sia tutto un gioco di sguardi

Non c’è più il metal estremo di una volta: ex feroci vichinghi oggi pagano tributo ai Röyksopp.

Tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio del nuovo millennio assistemmo, tra gli altri, anche al fenomeno del cosiddetto “depeche metal”: etichetta molto approssimativa ma altrettanto efficace per identificare la folgorazione improvvisa di legioni di metallari per il synth pop di Depeche Mode e dintorni (Metal Hammer pubblicò un bell’articolo del giornalista Luca Signorelli che sottolineava come i Depeche Mode fossero una band metal nell’anima, ancorché non nei suoni; o qualcosa del genere).

Quelli erano gli anni di Sin/Pecado dei Moonspell, A Deeper Kind Of Slumber dei Tiamat, Projector dei Dark Tranquillity e, soprattutto, One Second e Host dei Paradise Lost (e parecchia altra roba, inclusa gran quantità di paccottiglia).

Per il solito, noioso discorso che la storia tende a rimanifestarsi, vent’anni dopo gli Enslaved – serissima band death/viking metal capace di insospettabili incursioni nel progressive – pagano tributo a quelli che in qualche modo si possono considerare, se non i Depeche Mode della nostra epoca, quanto meno una delle migliori realtà elettropop in circolazione: i Röyksopp.

La cover di What Else Is There ha poco dell’atmosfera estraniata e inquietante della versione originale (magistralmente interpretata da Karin Dreijer Andersson degli svedesi The Knife, che grazie proprio al “featuring” con i Röyksopp uscirono una volta per tutte dall’ombra).

Quella degli Enslaved è più una cavalcata epica nelle praterie norvegesi (ammesso che vi siano praterie in Norvegia…), dove l’aggressività dei suoni è appena stemperata dalla scelta di Grutle Kjellson di far prevalere le “clean vocals” per buona parte del pezzo.

Non una rilettura irrinunciabile, ma un bel sentire – soprattutto grazie alla qualità della canzone in sé.

Enslaved 

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