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U2: You're The Best Thing About Me
Sian Evans, figlia di The Edge, prova il copricapo più amato dal gruppo

U2
You're The Best Thing About Me

Stop alla caccia alle streghe: vi spieghiamo noi che cosa succede nel nuovo singolo dell’ex gruppo rock più importante del mondo.

Stanno arrivando i “canti di esperienza” che tre anni fa gli U2 avevano promesso come seguito alle famose e infamate (molto più che ascoltate) Songs Of Innocence, gratuite eppur pagate care sia da Apple che dalla band un tempo amatissima e oggi dileggiata e disprezzata, bersaglio ambito da milioni di teoreti.

È arduo mantenere una posizione equanime, specie sotto il fuoco incrociato di chi li ha amati e li difende e chi è deciso a demolire, insieme a loro, l’importanza che un tempo il rock ha creduto di avere.

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La diatriba, è lecito presumerlo, campeggerà per una manciata di giorni sui media sociali e quelli asociali, finché noi tutti, squali del commento, saremo attratti da altro sentore di sangue. A quel punto coloro che riconoscono agli U2 un qualche fuoco indimenticabile rimarranno soli a cercare di sintonizzarsi, di individuare ancora nelle loro note e parole qualche indizio per orientarsi nel deserto.

Ma questo singolo non li facilita. E non perché anomalo rispetto alla produzione precedente: i fan hanno assorbito in passato svolte repentine che poche band si sono concesse, sia in senso sperimentale che in senso commerciale; e ad annunciarle erano proprio i singoli.

Inoltre, anche nei momenti più critici, la loro capacità di sfoderare un brano capace di tirare giù uno stadio (Vertigo, Beautiful Day, Magnificent, The Miracle Of Joey Ramone) è sempre stata un dono per il quale il 99 per cento delle rock band avrebbe dato un avambraccio.

Ma You’re The Best Thing About Me non è questo, e non è nemmeno uno strappo come Numb o Discotheque o Get On Your Boots. Sembra più uno spaurito scarto di dischi passati, uno di quelli che un tempo finivano negli EP o nelle raccolte del gruppo, e si addicevano al palato e allo stomaco di chi aveva ancora fame e non si era saziato con l’album.

Non è, intendiamoci, un BRUTTO pezzo: è però terribilmente interlocutorio, con quel senso della misura che non spaventa le radio, non invasivo, adatto a infilarsi felpato in una playlist, cautissimo come se la società irlandese avesse deciso dopo tanta buriana di attirare l’attenzione il meno possibile – vedi anche il testo, nel quale il protagonista decide che è meglio evitare la fiammata della storia d’amore.

Difficile dire se i prossimi brani saranno così frenati. Quel che è certo è che, pur senza scavarvi come William Blake, è difficile negare che questa canzone abbia quel certo retrogusto amaro dell’esperienza.

U2 

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