Chitarre che fan saltar i punti di sutura; batterie che crepano i muri. I The Districts (col “The” in evidenza) sono stati fin troppo ignorati; è ora di abbracciarli. Ora che son maggiorenni.
La prima volta che ho visto i The Districts, erano a Glastonbury 2015. Il pubblico li accoglieva con indifferenza, ma a loro non fregava una mazza. Erano lì per la prima volta in vita loro: sai che problema, l’accoglienza, quando sei di Lilitz, buco di novemila anime in Pennsylvania, e ti è concesso anche solo varcare quei cancelli…
Il frontman, Rob Grote, ricordava un Pete Doherty meno stagionato e un po’ più imbolsito – veramente “uncool”. Cantava di viver male, diviso tra due città, e di stazioni in cui incontrare qualcuno che amava. La sua voce era un concentrato di tutto ciò che adoravo, in compenso.
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Man mano che il concerto procedeva, notavo che i ragazzi picchiavano duro. Era come se fossero andati a scuola di “old folk” e post-punk, rigurgitandoli sul palco con quella urgenza ormonale che fa grattar le chitarre fino a farle scomparire. Osavano “break” un po’ contorti e improvvisazioni, senza mai perdere la struttura. So di non esagerare, dicendo che agivano da veterani.
Andando poi a curiosare, è venuto fuori che questa band di minorenni aveva già fatto ben due album e tre EP. Sottolineo “minorenni” perché, allora, avevano tutti meno di ventuno anni, e negli Usa vuol dire molto.
L’undici agosto esce il terzo album, Popular Manipulations, anticipato da If Before I Wake (secondo singolo dopo Ordinary Day). Non è gente che si prende sul serio; merita dunque di esser presa sul serio.
Peccato solo per quella voce che, rispetto a un paio di anni fa, pare aver perso un po’ di rabbia. Colpa forse della maggiore età.