L’ex Bloc Party che non ne vuole sapere di essere prevedibile. Kele ci mette la faccia, il cognome e sforna l’album della paternità.
La prima cosa che potreste non sapere è che Kele Okereke è l’ex leader dei Bloc Party. La seconda è che prima si chiamava “Kele” e basta. La terza è che, da solista, ha già all’attivo due album: uno del 2010, The Boxer, e uno del 2014, Trick. Opere dimenticabili (mai come le ultime due dei Bloc Party, in ogni caso), ma che gli hanno valso un’inspiegabile credibilità nel granitico mondo del “clubbing”.
Chi vira dall’indie rock alla dance, lo fa di solito con grande fatica e non senza ostacoli. Per lui il passaggio è stato fluido, invece; ha abbracciato in un sol colpo dubstep, tech-house e rock elettronico ad alto impatto (come dimenticare quel martello pneumatico di Tenderoni, suo singolo d’esordio). Il tutto tra le braccia dell’etichetta Crosstown Rebels, un’istituzione della “club culture” britannica.
Ora Kele, cittadino inglese nato da genitori nigeriani, sta per pubblicare il terzo disco, e tutto ciò che sapevamo di lui è finito. Il bisogno impellente di aggiungere il cognome deriva dalla sua recente paternità (lo scorso dicembre è nata Savannah, primogenita, “avuta” con il compagno di lunga data).
Come tutti sanno, quando si diventa padri non si va più in disco. Infatti, il singolo Streets Been Talking prende le distanze dai 120 bpm, abbraccia una trama acustica raffinata e va comporre qualcosa che ricorda molto una filastrocca. Una delizia che fa emergere per la prima volta, forse, le sfumature interessanti della sua voce.
Il nuovo album si chiama Fatherland. Un titolo scontato, per un album che non lo sarà per niente. Come non lo è lui, del resto.