Telefon Tel Aviv: otto anni dopo. Uno su due ce la fa, e ti spacca in due.
Quando nel 2001 usciva Fahrenheit Fair Enough, album d’esordio dei Telefon Tel Aviv, “troppo” era l’avverbio più usato, parlando di loro. Troppo elaborati, troppo carichi, troppo cerebrali. Salvo poi ritrovarseli in palestra come sottofondo al corso di yoga.
Eccolo qui, il labile confine tra l’elettronica elegante e la musica “da meditazione”. Il culto, da un lato; l’equivoco, dall’altro.
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Debuttare con un disco così, in quel periodo, con il trip-hop e l’intera scena di Bristol ancora addosso, significava finire dritti nella categoria IDM, “intelligent dance music”; una definizione che verrebbe voglia di spaccare sintetizzatori, per quanto è brutta. Poi però sono arrivati i Radiohead in versione smanettona, e anche le trame più complesse sono sembrate abbordabili.
Tutto pareva procedere bene, per i Telefon Tel Aviv da New Orleans: lo sdoganamento, un tour mondiale, nuovi lavori ben accolti (specialmente Map Of What Is Effortless, del 2004). All’improvviso, però, un evento singolare: Charlie Cooper, uno dei due, viene ritrovato cadavere in un bosco, vittima di un’overdose. L’ altra metà, Joshua Eustis, molla tutto e va in tour con i Nine Inch Nails.
Ora, dopo otto anni, arriva Something Akin To Lust; finalmente, altre grandi trame sognanti dei Telefon Tel Aviv, direte voi. E invece no: questo pezzo fa risalire anche un acido di Woodstock; è una motosega impazzita, un tosaerba infernale. Inizia piano, ma non fidatevi. E provate a usare questo, nel vostro seminario di “mindfulness”.