La voce punk delle minoranze contro l’America dei tiranni: ne rimarrà solo uno.
Autodefinirsi un “bi bilingual political dance sax punk party from Providence” funziona bene solo se, poi, il contenuto musicale è all’altezza della situazione.
Nel debutto sulla lunga distanza del 2015 – Full Communism – lo era, eccome; oggi i Downtown Boys s’apprestano a rivendicare la propria natura di gruppo punk esplicitamente politicizzato, stilisticamente eclettico e piuttosto talentuoso, col nuovo disco atteso ad agosto.
I ragazzi chicani del Rhode Island, in teoria, “costruiscono ponti e non muri” (cit.); tuttavia, la loro forza d’urto tira giù ponti, muri e persino le impalcature. Il sound del quartetto è solare, effervescente e contagioso: un credibile inno all’autodeterminazione nella pazza America del 2017 (ma potremmo dire nel pazzo mondo intero del terzo millennio).
Probabilmente i Downtown Boys non sono grandi estimatori dell’attuale presidente degli Stati Uniti, ma non inoltriamoci in argute digressioni sul voto degli elettori del New England (per quello c’è sempre Rai 3). Radicalismo militante a parte, per il momento ci basta la voce di Victoria Ruiz e quel loro sassofono esuberante. La rivoluzione si può fare anche col sorriso in bocca, forse.