Con Kendrick Lamar il rap ritrova ogni volta quella chirurgica lucidità che, prima dell’era del “bling-bling”, lo aveva reso uno straordinario fenomeno artistico e sociale.
Nascere nel 1987 a Compton, mentre il gangsta rap viene partorito dal ventre del ghetto losangelino, segna un marchio esistenziale indelebile. E così Kendrick Lamar, che ha nel sangue il DNA che Tupac Shakur pagò con la vita, non può esimersi dal fare dell’hip hop l’ultimo idioma di sincerità.
Lontano anni luce dai riflessi dorati che accecano molti colleghi della sua generazione, K-Dot – il suo soprannome – esce con un pezzo ridondante di chirurgica lucidità. «I niggas sono i falsi ricchi, sono neri che si comportano come bianchi. Donald Trump è un idiota, sapete come ci sentiamo (…) ? I voti elettorali sembrano una commemorazione, ma la verità dell’America ignora i voti. Quanti leader sono disposti a dire la verità dopo di me?».
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Il rap, che ha venduto la sua anima al diavolo, con Lamar ritrova ogni volta il gene “conscious” dell’intelligenza: quella di chi non ci sta a viver come bruti, ma vuol seguir virtute e canoscenza.