Dieci anni tondi tondi per Jónsi e soci, un cambio di formazione non trascurabile, e oltre sette minuti toccanti e distopici per ripartire. Cinque (in realtà, anche qui quasi dieci, se vogliamo risalire all’ultimo full-length) per Richard D. James, sempre che quella che ha appena fatto capolino sia davvero roba nuova, ma questa è un’altra storia, di cui ci frega il giusto. Cinque anche per il nostro Johnny Marsiglia, che se non altro nel frattempo si è fatto una cultura a tema NBA e ora ce la rappa con dovizia di particolari. Altrettanti per Miya Folick, che però intanto si è tenuta occupata con collaborazioni di un certo livello (qualcuno ha detto American Football?) e pure per i Butcher Babies, anche se in molti continuano a chiamarli le Butcher Babies, a causa degli ormoni offuscati dalle forme prorompenti di Heidi Shepherd e Carla Harvey, le Paola & Chiara del metal. Quattro per i Baroness, che si portano in sala prove Gina Gleason e sfornano l’ennesimo singolone come se il tempo non fosse passato.
Ma anche gente che si fa desiderare meno. Tipo Nia Archives, che scompone e ribalta una vecchia hit degli Yeah Yeah Yeahs, Arthuan Rebis, che prosegue il suo percorso a dir poco di nicchia, tra intuizioni neoclassiche e forti influenze celtiche, o i Cattac, veri e propri Type O Negative in versione electro.
Inutile guardare il calendario, invece, quando si parla di un incontro sui generis come quello tra Jonny Greenwood e Dudu Tassa, che danno nuova vita alla multiforme canzone araba in una dimensione non geolocalizzabile, fuori dallo spazio e dal tempo.