Ripigliarsi – nella vita, in generale – non è mai facile. Se pensiamo alla storia di Dave Grohl e all’atteggiamento con cui ha affrontato l’incredibile serie di lutti che gli sono arrivati fra capo e collo, un po’ di sano incoraggiamento riusciamo sempre a raccattarlo. L’ennesimo capitolo dei Foo Fighters (impreziosito dal cameo della figlia Violet) è “solo” l’ultimo mattoncino di una carriera fatta di resilienza e buona musica. Ditelo poi a Duff McKagan che – come non fosse stato sufficiente essersi dovuto sorbire per anni Axl Rose – ha fatto non poca fatica a scavallare la pandemia. Ma anche in questo caso, scrivere canzoni è la migliore terapia.
Non importa da quale lato la affronti, sempre di terapia si tratta. Può essere la sana melanconia del folk brumoso e languido di Brigid Mae Power o, all’altro estremo, i beat tropicali e dancerezzi dei Jungle. L’importante è che funzioni. Altrimenti tocca passare alle maniere forti. Ovvero alla brutale semplicità dei riff dei Cadaver, alla furbesca attitudine old school dei Fifth Angel, agli inaspettati ritornelli canterini di Anders Fridén (vocalist degli In Flames che, ospite nel disco di Nita Strauss, finisce per mettere in secondo piano la biondona chitarrista di Alice Cooper), alla brusca sterzata di Gvllow, rapper duro e puro, eppure contaminato dal post-punk e dal goth, al punto di chiamare i fratelli Agnew per una cover dei Christian Death.
Post-punk, dicevamo. Un linguaggio universale, a quanto pare: che sia un omaggio all’opera di uno scrittore russo fatta da una band francese come i Varsovie, o la versione meticcia di un portoghese trapiantato in Polonia – vedi alla voce Renato Alves, a.k.a. Mekong.